Il Mulino FAI di Baresi

Mulino di Baresi (F.A.I.)

Si tratta di un piccolo edificio seicentesco costruito da un corpo principale, al cui interno si trovano un mulino per farine e un torchio per noci, e da un piccolo locale adibito a caseificio.
Lungo la strada che porta al mulino si vedono anche altri edifici legati alle attività proprie dell’ Alta Valle: la segheria di Giuste e il mulino del Carlo Gras.

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Esistente almeno dal 1550, ha ospitato un maglio, e poi contemporaneamente un torchio per la spremitura delle noci, un mulino per le farine, un forno per il pane e una casera. Dall’attività di questi opifici decine di comunità della Valle Brembana hanno ricavato per secoli i beni della propria sussistenza: farina gialla e bianca, miglio, olio da alimentazione e per l’illuminazione, formaggio e pane. Un vero laboratorio dalla cui attività dipendeva la sopravvivenza di intere famiglie. Quassù arrivavano da tutta la valle per far macinare farine e spremere noci, miste sovente a nocciole. Dopo secoli di attività ora le ruote del mulino e il torchio che schiacciava le noci sono fermi, il locale della casera pericolante e i muri dell’edificio crepati. Tutto però, all’interno, sembra rimasto come una volta. Quasi che l’ultima persona che ha fatto funzionare quei delicati attrezzi sia uscito una sera senza sapere di dover rientrare mai più. Le ruote del torchio e le macine capaci ancora di girare. Gli attrezzi del maglio e del mulino appoggiati nelle cassette. Ovunque recipienti, pezzi e ricordi di un tempo ormai perduto. L’ultimo che, fino a sei anni fa, ha fatto girare il mulino per ricavare farina gialla a uso domestico è stato Maurizio Gervasoni, membro della famiglia che da secoli ha la proprietà del torchio. Ora ne è proprietaria la moglie Giovanna Locatelli, erede sarà il figlio Mattia, oggi studente 15enne. Per arrivare al torchio-mulino si raggiunge località Oro di Baresi. L’ultima casa è proprio quella della famiglia Gervasoni che dall’alto sembra custodire e vegliare sul mulino. Dall’abitazione si scende per 200 metri di sentiero raggiungendo così l’antico edificio che ospita il torchio, immerso nella Valsecca. Alcune piante di noci vicino al sentiero ricordano l’attività che veniva svolta nel torchio. Sopra l’ingresso un affresco: una Madonna con bambino che tiene in mano una specie di anfora (forse contenente olio) mentre a destra è raffigurato un albero di noce. A terra, sulla sinistra dell’ingresso, c’è una grossa pietra lavorata che forse faceva da contrappeso dell’antico maglio. Dentro non c’è nessuna finestra che lasci entrare uno spiraglio di luce; è buio pesto, rotto solo dalla lampada che permette di vedere un vero e proprio tesoro per la storia rurale. Il mulino per la farina, con le due macine di pietra perfettamente funzionanti, porta la data del 1674; ci sono ancora setacci, palette e contenitori pronti all’uso. In fondo all’edificio quello che molto probabilmente era il forno per il pane. Ma il pezzo più importante dell’intero complesso è sicuramente rappresentato dal torchio per le noci: un complicato sistema di ruote (quella grossa e verticale che dava il via al sistema veniva mossa da un uomo che vi camminava all’interno) consentiva di ottenere olio di noce, utilizzato come alimento oppure per l’illuminazione. I panetti ricavati dalle noci servivano per l’alimentazione dell’uomo o degli animali. Sul grosso legno che sorregge la vite mobile del torchio è riportata la data del 1672. Nel resto dell’edificio ci sono pezzi di ruote in pietra o in legno, altri strumenti di lavoro, per il maglio o la macina. Una vera officina con tutto il necessario, ancora oggi, per poter ritornare in funzione. Un locale adiacente al principale ospitava invece una casera: c’è ancora il tavolo con gli scolatoi, dove veniva lavorato il latte. In terra catene di ferro e i bracci della teleferica che veniva utilizzata per fare arrivare al mulino la legna. All’esterno la ruota principale del mulino è ancora utilizzabile: basterebbe sistemare il canaletto che portava l’acqua dalla valle vicina. Il torchio-mulino è stato recentemente visitato dal direttore scientifico del museo di storia dell’agricoltura di Sant’Angelo Lodigiano che lo ha definito un vero monumento. Ma, cosa più importante, il 19 dicembre scorso, la Soprintendenza ai beni ambientali e storici ha vincolato l’intero edificio, quale «bene storico d’importanza generale», compresi i terreni circostanti. Eventuali scavi, infatti, potrebbero riportare alla luce nuove sorprese.

testo di Giovanni Ghisalberti